domenica 21 gennaio 2018

Leggere "il cappotto" e "il naso" di Gogol

Da uno scrittore russo, mi aspettavo di più, mi tocca ammettere!  Ma dopotutto si sa che nei racconti, le narrazioni sono necessariamente esemplificative per via della brevità che lì caratterizza. Continuo a pensare, che del resto scrivere un racconto sia persino più difficile di scrivere un intero romanzo, perché bisogna saper trovare le parole giuste e  adeguate per non tralasciare nulla. Riconosco che Gogol, non delude per quanto i racconti mi lascino quasi spesso insoddisfatta, perché io amo perdermi  nei dettagli. Mi piacciono le storie in cui i personaggi sono ampiamente descritti a livello psicologico, da riuscire a immedesimarmi in loro, e che siano così ben costruiti ad hoc da sembrare veri, quasi come se potessero uscire fuori dal libro.  Nel cappotto, il protagonista è un personaggio penoso, da compatire, che infastidisce il lettore per il suo modo di vivere così insulso e banale. Ma in fondo, riflette un aspetto realistico, quello di diventare così piacevolmente schiavi del lavoro, da non sviluppare nessun altro tipo di attitudine. Inoltre, un altro aspetto su cui riflettevo era il suo accontentarsi, non aspirava a nulla, nessun obbiettivo da raggiungere, nessuna aspirazione e aspettativa futura.
Ma a causa del freddo pietroburghese, si trova a costretto a buttare il suo cappotto rattoppato, definito in senso dispregiativo  "vestaglia".
È  costretto a comprarsi un cappotto nuovo,ma non ne ha le possibilità economiche, i cappotti costano troppo.
E da qui che inizia a diventare grottesco e inverosimile,  dato che il cappotto nuovo, diventa la sua ossessione. Probabilmente l'unico obbiettivo che si sia mai predisposto a realizzare in tutta la sua vita.
In fin dei conti mi è piaciuto molto, mi ha dato tanti spunti di riflessione, nonostante prediliga i romanzi ai racconti.
Riguardo "il naso",come racconto, mi ha convinto molto meno, mi è sembrato più che grottesco,  nonsense, dato che il naso sparisce e ricompare  dalla faccia del protagonista,senza una spiegazione plausibile.

sabato 13 gennaio 2018

Momo di Micheal Ende

Questo scrittore tedesco è noto per l'altisonante titolo "La storia infinita", che a me non ha mai detto niente, preferisco di gran lunga la meno celebrata storia di "Momo", secondo me più carica di significato.
Momo  viene presentata a prima vista come la solita storia di una bambina orfanella, che riesce a farsi tanti amici, che è buona ed ascolta sempre tutti, ma  nel corso del romanzo accade qualcosa di molto interessante, arrivano dei signori grigi in giacca e cravatta che rubano il tempo alle persone.
Improvvisamente, tutti sono ossessionati dall'idea di andare alla banca di risparmio del tempo, tutti che cercano ad ogni costo di risparmiare il loro tempo, e cercano di fare tutto con il minor dispendio di tempo, ma a risentirne è la qualità del lavoro svolto, e la gente non trova più il tempo per rilassarsi e svagarsi, sono sempre tutti di corsa.
Si crea un mondo grigio e morto,  che va di corsa, e le persone si comportano come delle macchine che non trovano neanche il tempo per provare sentimenti, dato che anche quello viene ritenuto uno spreco di tempo.
Un libro che  banalmente viene ritenuto per bambini, ma che non lo è.
Aiuta certamente a capire il mondo dei bambini, poichè sono proprio i bambini gli unici a non sottomettersi al volere dei signori grigi, dato che i bambini non si curano del tempo, i bambini fanno tutto calma, e sono quindi i bambini padroni indiscussi del tempo.
Ma allo stesso tempo questo libro, oltre a vederlo sotto un aspetto per così dire pedagogico, secondo me è lungimirante e premonitore di una realtà odierna, nella quale purtroppo conta l'efficienza, la velocità, la dinamicità, rispetto alla qualità effettiva di quel che si fa.
Anche i bambini alle primarie spesso studiano un minestrone di cose, e devono subito riuscire a leggere testi lunghissimi, e fare i calcoli senza usar le dita, perchè devono riuscire a far tutto nel minor tempo possibile, se è possibile non devono neanche pensare al numero nella sua concretezza, devono fare tutto a mente come delle macchine, perchè così fanno il prima possibile, ma  alla fine quei numeri restano dei concetti così astratti e sfuggenti, da non riuscire a calcolarli.
E poi ci sorprendiamo, del fatto che tanti bambini non riescano a star al passo, e che ultimamente la percentuale di bambini con disturbi di apprendimento si è notevolmente alzata?!
L'ansia e la frustrazione di questi bambini, alla quale viene richiesto di accorciare i tempi, di seguire le lancette dell'orologio,  riducendo l'apprendimento un concentrato di nozioni buttate così a caso, e rendendo la scoperta del mondo qualcosa di dato per scontato, in un'età in cui non dovrebbe esserlo.
Riflessioni a parte, che faccio anche un po' in base al vissuto nelle scuole italiane, in cui sto notando questi aspetti negativi. Il libro in un modo o nell'altro ci fa riflettere sull'importanza del tempo, e di quanto spesso questo tempo ci venga ingiustamente sottratto, e non ne siamo pienamente padroni come vorremmo, come lo sono i bambini o meglio come dovrebbero esserlo, dato che si tende a voler forzare persino i bambini a farli rientrare in questo sistema distorto e malato. Bambini che non vogliono perder tempo a giocare o a fare i laboratori, perchè è più importante riuscire a finire i compiti nel più breve tempo possibile. Nel libro di Ende, questo non succede i bambini non si sottomettono, ma nella realtà  ahimè i signori grigi spesso vincono, a discapito di tutto.










Lasciami entrare di John ajvide Lindqvist

Preciso che non sono un'amante dei gialli, dei thriller nè degli horror, quindi questo romanzo mi ha piacevolmente stupito, anche perchè non  corrisponde al solito schema predisposto da questi generi, ma è molto di più.
Difficile trovare la definizione giusta del genere di questo romanzo, qualsiasi genere sarebbe riduttivo , svilente e dissonante.

L'autore condensa tanti generi diversi, dal giallo, thriller,  horror introspettivo-psicologico, a tratti anche romantico e drammatico.


Ammetto, di non averlo preso a caso, avevo visto inizialmente visto il film e mi era particolarmente piaciuto, poi ho scoperto che era tratto da un libro, così mi sono ritrovata con il libro tra le mani.

La storia del romanzo,  ovviamente, si presenta molto più che soddisfacente rispetto al libro, se non per il finale, nella quale ho voluto completarlo, rievocando alla memoria quella del film, che mi era piaciuta molto di più e parsa più completa e sensata.

Partendo dalla trama, la storia è ambientata a Stoccolma, nel quartiere di Blackeberg,  in cui vive  un bambino di 12 anni , Oskar,  che è vittima di bullismo a scuola, e un giorno fa la strana e insolita conoscenza di una  misteriosa bambina di nome Eli, che si scoprirà successivamente  essere un vampiro,ma non lasciatevi ingannare, non ha niente a che vedere con le solite storielle d'amore melense alla Twilight o robe del genere.
Qui si tratta di una vampira vera, alla Bram Stoker, che smembra e uccide le persone, insomma niente vampira vegana per John ajvide Lindqvist.
Niente personaggi eccessivamente perbenisti, da apparire fasulli, ma dei ritratti crudi e per certi versi realistici. Oltre ai personaggi principali, ne vengono presentati tantissimi altri nell'arco della storia,  e molti di questi,  sono personaggi  sordidi, che mostrano una realtà agghiacciante, graffiante  e spaventosa,  evidenziando che  Eli il vampiro non è il problema principale, in una realtà fredda, contaminata dalla violenza, pedofilia,droga e chi più ne ha più ne metta.  Fortemente significativa,   in questo senso appare la frase di Eli " Io uccido perchè ne ho bisogno per sopravvivere", evidenziando che la natura umana, spesso commetta crimini,  per un piacere perverso.
Il titolo è ulteriormente emblematico, richiamando l'attenzione sul fatto che Eli ha bisogno che Oskar la inviti per entrare a casa sua, ma oltre a questo il titolo offre spunti di riflessione, sulle persone che spesso si lasciano entrare nella nostra vita, e nella quale spesso non siamo consapevoli se possano farci del bene o del male.
Spesso non lo sappiamo, e possiamo solo limitarci a farle entrare, senza saperne le eventuali conseguenze.
Ho trovato anche interessante, la precisione dello scrittore nel descrivere con estrema accuratezza tutti gli ambienti e le zone della Svezia, mi ha proprio fatto venire voglia di andarci, poi ho scoperto che la scuola in cui va Oskar esiste veramente,  e che lo scrittore ha vissuto proprio nel quartiere di Blackeberg, nella quale ha ambientato la storia. Un'altra cosa curiosa, che mi ha anche fatto leggermente sorridere, è che lo scrittore in precedenza faceva il cabarettista, e infatti si possono ben notare  delle battute e sfumature sarcastiche e ironiche giunti a metà del romanzo. Si nota anche una buona conoscenza dello scrittore, che fa tantissimi richiami ad altri romanzi, poesie e fiabe della tradizione svedese, insomma un libro che permette anche di farsi una buona cultura sulla Svezia.
E' un romanzo sorprendentemente bello, che intriga fino all'ultima pagina e che lascia con il fiato sospeso, anche se il finale, ribadisco, quello del film mi è parso più efficace ed esaustivo.
Per il resto è una lettura che merita, e mi dispiace tanto che sia un libro così poco nominato e conosciuto, perchè è un romanzo che offre una perfetta analisi psicologica dei personaggi e tanti spunti interessanti di riflessione, oltre che un' atmosfera  fredda, cupa e di suspence.








Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata

Questo romanzo narra lo struggente incontro amoroso tra Komako, una geisha e il protagonista Shimamura. Il titolo è molto emblematico, si riferisce al luogo in cui lavora la geisha Komako, paradiso termale, dove la neve è alta quindici piedi, ma allo stesso tempo il titolo richiama la malinconia dei due protagonisti, che pur amandosi, non riescono mai a dirselo. E’ un romanzo di efficace impatto emotivo, è nostalgico e malinconico, e si evidenzia la maestria dello scrittore nella descrizione di queste emozioni, così tanto da farci credere che i personaggi siano quasi reali, o comunque da farci immedesimare nelle loro inquietudini e tormenti, pur mantenendo un certo distacco.
I Sentimenti dei protagonisti sono candidi e delicati come neve, ma allo stesso tempo freddi, silenziosi, distaccati, nostalgici e incolori come la neve.
Non è un romanzo per tutti, per chi vuole una trama lineare e sensata, ne rimarrà deluso, dato che i fini del libro non è quello di giungere ad una conclusione diretta della storia, ma semplicemente quello di dare massima espressività a quel sentimento chiamato languore, e in questo senso è molto evocativo anche negli scenari, questa insistente ed efficace immagine delle neve, sta a voler rappresentare i sentimenti stessi dei protagonisti, e  Kawabata riesce bene nell’intento, ci trasporta nel paese delle nevi, in cui sentiamo freddo, e quella neve bianca finisce per gelarci il cuore, come fa con i protagonisti.
Io direi che è un libro particolarmente invernale e suggestivo, da leggere però sdraiati a letto sotto il caldo piumone, e preferibilmente con una bella cioccolata bollente, farlo con il freddo del treno, con la neve che si vede dai finestrini, certo era molto evocativo ed efficace, dato che anche il romanzo inizia con una scena simile, però appunto forse troppa immedesimazione, mi ha anche agevolato l’influenza!
Detto questo, giungo alla conclusione che è uno di quei romanzi di difficile apprezzamento e comprensione per un occidentale, perché si respira quella distinta sensibilità e delicatezza giapponese, che difficilmente noi occidentali potremo capire.
Sono infatti certa di non aver colto pienamente tutte le sfumature significative del romanzo.
Ammetto di aver storto gli occhi, dinnanzi a un finale per nulla soddisfacente.
Mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca, ma credo che questo fosse nell’intento stesso di Kawabata, lasciare per così dire il lettore in sospeso, con un finale aperto, dato che non era quello l’aspetto focalizzant

e del romanzo, sulla quale volgere lo sguardo.
Ma nonostante tutto, non posso far a meno di riconoscere la bravura e la maestria di Kawabata nel catapultare il lettore nel paese delle nevi, con descrizioni molto evocative ed espressive.

Rimango dell’idea che valga la pena leggerlo, almeno una volta nella vita, nonostante sia un libro a tratti incomprensibile e sfuggente, resta un romanzo che lascia il segno a livello emozionale e riflessivo. Dopotutto non a caso , Kawabata è stato il primo giapponese a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1968.

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